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Andiamo a bruciargli la casa, PhD edition vol. 2

Antefatto: Koris è stata più o meno obbligata a partecipare a colloqui di selezione per trovare qualcuno che continui il suo lavoro in scadenza. Il Capo ha deciso che questo qualcuno sarà un dottorando, perché i dottorandi costano poco e rendono tanto. Siccome il progetto sarebbe da attuare in collaborazione presso un altro laboratorio, Capo ha preso due picconi con una fava (il significato di fava potrebbe anche essere traslato, tutto sommato) e ha preparato una proposta di dottorato in cotutela; due laboratori e un dottorando a metà prezzo, affrettatevi gente che l’offerta scade e alle prime dieci chiamate una batteria di pentole in omaggio. Il capo di quest’altro laboratorio verrà ai fini del post etichettato con l’evocativo nome di Obi Wan Kestronzo, ricercatore dal cv decorato, dallo stipendio fisso di giada e che ci tiene a farlo sapere.

Dunque Koris, essere della medesima importanza del due di coppe con la briscola a bastoni, si è ritrovata a dover colloquiare con alcuni aspiranti dottorandi per saggiarne le competenze e le intenzioni. In teoria, se le cose fossero andate come auspicava il Capo, Koris sarebbe stata la co-tutrice di dottorato, tuttavia il Cetriolo Cosmico ha voluto diversamente e quindi nada, oggi le è toccato il ruolo di quella-che-non-si-sa-bene-perché-è-lì. Visto il giro che hanno preso di eventi, Koris pensava di mostrarsi in webcam con sullo sfondo Gandalf al ponte di Khazad-dum, per mandare un velato messaggio ai candidati. Ma non è questo il punto.

Obi Wan Kestronzo in quanto ricercatore blasonato di un istituto rispettato ha pensato bene di mettere subito in chiaro le cose: o hai il sacro fuoco (al culo), oppure tanto vale che lasci perdere subito il dottorato. Si è registrato questo crescendo di uscite da maestro jedi di stocazzo versione accademica:
“Fare un dottorato significa mettere in pausa la propria vita per tre anni per dedicarsi solo alla scienza”
“Quando si decide di fare un dottorato, la vita privata deve contare meno di zero”
“Un dottorando fa una vita di merda, è pagato male, non ci guadagna nulla se non un diploma e noi advisor lo sfruttiamo, ahahahah” (cazzo ti ridi? n.d.K.)
“La vita di un dottorando è la vita di un monaco: ti alzi alle quattro del mattino per fare la preghiera e lavori fino a mezzanotte e ogni giorno di nuovo”

Il Capo, che si rifà alla massima francese “pas de couilles, pas d’embrouilles”, non ha detto nulla. Dopo la prima frase Koris ha cercato di intervenire, non l’hanno calcolata sempre per l’importanza di cui sopra. Alla seconda massima sapienziale di Obi Wan Kestronzo Koris era pronta ad urlare “armatevi, cattiva gente!” ed è un attimo che il furore dilaga in città, che poi è quello che si meriterebbe gente di tal fatta. Siccome non aveva abbastanza, Obi Wan Kestronzo ha aggravato la sua posizione facendo le pulci a un candidato preparato perché “non c’è la scintilla, io le cose devo sentirle a istinto. E poi ho paura che non sia una persona con cui è piacevole discutere, non sembra simpatico” (ci devi fare un dottorato, non una vacanza, cosa cazzo non ti è chiaro del tuo ruolo di advisor?). Koris ha finito questo pomeriggio di colloqui in uno stato di furia, col fegato che ormai si era fatto un’attestazione per cause di forza maggiore ed era fuggito alle Fiji.

Momento serio: sì, il dottorato è un culo, anche abbastanza mostruoso. Sì, il dottorato è impegnativo. Sì, il dottorato è un impegno preso per tre anni e non un semplice contratto a tempo determinato che, anche se rotto, ti apporta comunque qualcosa. No, il dottorato non è un parcheggio e non è solo uno stipendio. No, il dottorato non è una grande vacanza erasmus da prendere sotto gamba. No, il dottorato non è un “massì perché no”.

Però CAZZO. Anzi, CAZZISSIMO. Un dottorando non è uno schiavo, non è lì per fare un piacere all’advisor e macinare pubblicazioni, non deve essere simpatico e soprattutto non deve essere sfruttato. Innanzitutto, è un cazzo di essere umano che lavora e come tale va trattato, col rispetto dovuto, anche se accademicamente parlando è una merdina che non sa nulla. Un dottorando che mette in pausa la sua vita per tre anni, senza relazioni, famiglia, amici e altre cose all’infuori della sua tesi… beh, non è una persona appassionata, ha un problema. E un Obi Wan Kestronzo che pretende fedeltà, obbedienza, simpatia e orari da sfruttamento non è un advisor, è una merda umana e basta. Non ci sono scusanti.

Oh, sì, una ragione c’è: è sempre stato così, in saecula saecolurom amen, i dottorandi soffrono e poi, se arrivano al vertice, si vendicheranno delle loro sofferenze sulla nuova generazione. “Eh, ma la gavetta è importante”, diranno. Oppure, “un dottorato che finisce bene non è normale”, come dissero a Koris al terzo anno al culmine dello stress. Essere maltrattati forma alla vita vera, insegna ad affrontare le avversità, tempra il carattere, gli avvilimenti ti insegnano a stare al tuo posto, e poi questo mondo è una valle di lacrime, tanto vale farti le ossa subito.

Piccole e come al solito volgare Koris-opinione: proprio col cazzo. Il rapporto padrone-schiavo, farsi belli del “io so’ io e voi non siete un cazzo” solo perché firmi quella cazzo di tesi da cui dipendono tre anni di lavoro di una persona, l’atteggiamento indisponente e da mi-sento-stocazzo non servono proprio a nulla. Sono solo un perverso desiderio di rivalsa per avere una chissà quale vendetta per traumi sofferti, vendetta per altro perpetrata su chi non ne può nulla. Non è che se tu hai attraversato l’inferno a piedi nudi devono farlo tutti. Non è che perché sei stato trattato come lo straccio del cesso che allora devi farlo a tua volta. O forse sì, ma solo per soddisfare il tuo stupido ego di pallone gonfiato che si rifà su chi non può risponderti di andare affanculo, tu e la tua tesi di merda.

Cosa ha potuto fare Koris? Niente. Cosa potrà fare Koris in materia? Altrettanto niente, a parte farlo presente al Capo che liquiderà la cosa con “è il modo di fare Obi Wan Kestronzo”. Ecco, di questi modi di fare ne avremmo un po’ pieni i coglioni. A XXI secolo inoltrato sarebbe il caso di rendersi conto che si può insegnare anche nel rispetto dell’altro e nei limiti di un’attività lavorativa sana, che non escluda il resto dell’esistenza. Perché sì, incredibile, la ricerca è un lavoro, il dottorato è un apprendistato per quel lavoro e forse sarebbe l’ora che smettiamo di nasconderci dietro allo spauracchio “ma che contratti, paSSione ci vuole, paSSione“, per iniziare a dare a ognuno la dignità che merita.

Vignetta pubblicata una settimana sulla pagina facebook di ScienceDirect, che volevano fare i simpatici. Magari dovremmo smettere di ridere di questo schiavismo istituzionalizzato e fare qualcosa per migliorare la situazione dei dottorandi.

Overly Attached Santuzzo

(Nota di cui non frega niente a nessuo ma vabbè: la giornata di ieri sarà passata sotto silenzio, perché se uno deve rovinarsi il fegato allora è meglio l’alcol della bile nera)

Koris esce dal suo ufficio per andare a parlare col Capo e sulla soglia inciampa in lui. L’unico (si spera). Inimitabile (anche). Dottorando Santuzzo. In maniera iperbolica, dottor Santuzzo, ma visto che si avvicina alla discussione di dottorato senza toccarla mai, resta dottorando Santuzzo.

Il Koris-cervello vaglia la possibilità che Santuzzo stia cercando lei: probabilità bassa. Quindi si trovava qui per caso o per vedere qualcuno nei paraggi. Che fare? Ignorarlo? Concedergli il sorriso dei condannati ai morte? Salutarlo? Alla fine Koris fa la scelta peggiore.

“Come va?”

Koris si è dimenticata che la stessa domanda rivolta a lei nel giugno 2013 scatenò una reazione isterico-depressiva. Koris ha la memoria corta. Ma Santuzzo è un essere gioviale e benedetto dagli dei, quindi si illumina di immenso.

“Bene, bene! Ho mandato la tesi!”
“Ottimo! Agli esaminatori?”
“No, al mio relatore.”

D’oh. Santuzzo non è un essere gioviale, è un essere ignaro che danza su filo teso di traverso su una voragine infernale.

“E quando la mandi agli esaminatori?”
“Appena il relatore mi dà luce verde”
“Ma la discussione quando sarebbe?”
“Ah, non lo so”

Meh. Santuzzo, a settembre ti si era detto che non era pensabile di discutere a fine novembre. Ma nemo est profeta in patria e qui sei fai il profeta finisce che ti linciano come uccello del malaugurio.

“Però fra un mesetto torno in India”
“Ah, davvero? E quando torni qui?”
“Uhm, non torno”
“E per la discussione?”
“Ah, uhm, non so ancora. Però voglio continuare a collaborare con te! Lavoriamo assieme! Abbiamo ancora almeno tre articoli da scrivere! Teniamoci in contatto!”

Frena, Santuzzo, frena. Koris ha smesso di credera da un po’ alle relazioni a distanza, non è certa che questa cosa possa funzionare. Tu dici tre articoli, poi diventano due, poi uno, poi ti trovi un altro co-autore. È il ciclo naturale delle cose. E soprattutto Koris non è sicura di volersi beccare su Skype i tuoi “Please, help me!” ad orari indiani.

“Ehm, io ora devo andare dal Capo, facciamo che poi ne parliamo con calma?”
“Sì, sì! Con calma! Ho tante cose da chiederti!”

Questa deriva di Santuzzo a fine dottorato sta diventando ogni giorno più inquietante.

overly

Qualcosa del genere, versione Santuzzo.

Cambiamento di ausiliare

Pensieri di quando sei un dottorando:

  1. “Oddio, il mio responsabile non mi caga! Sicuro che mi odia!”
  2. “Certo che potrebbe anche interessarsi della mia vita ogni tanto…”
  3. “Avrei dovuto pensarci prima, non ho niente di pronto!”
  4. “E se sbaglio la conversione da centimetri quadri a metri quadri?”
  5. “Se non mi do una calmata non ne esco viva!”

Pensieri di quando hai un dottorando:

  1. “Perché non dà segno di vita? Sta cazzeggiando?”
  2. “Certo che potrebbe anche degnarsi di dirmi a che punto è…”
  3. “Sempre all’ultimo momento, ci mancherebbe, la pianificazione fa male alla salute…”
  4. “Ma mi ha chiesto la conversione da centimetri quadri a metri quadri? Ma veramente?!”
  5. “Se non si dà una calmata non ne esce vivo e tutto il lavoro che faccio per lui sarà inutile…”

Cambi un verbo ausiliare e ti cambiano il cervello. Un giorno Koris si sveglierà Replicante.

 

Blue Whale Challenge, PhD edition

Da qualche giorno rimbalza su tutti i quotidiani e non la notizia dell’espandersi della cosiddetta Blue Whale Challenge, un “gioco” sull’internet in cui il “giocatore” si piazza sotto il controllo di un “amministratore” che gli impone una lista di 50 cose umilianti da fare, fino ad indurlo al suicidio. Che sia vero o meno, sull’internet si dice che abbia condotto alla morte un certo numero di teenagers russi. Amministratore che invia mail con compiti umilianti che a lungo andare inducono al suicidio. Ci ricorda qualcosa.

bluewhale

E ti pareva!

In fondo, le somiglianze sono parecchie. Come comincia il gioco? Con una conversazione di questo tipo:

PhD Student: voglio fare un dottorato!
Advisor: sei sicuro? Non puoi tirarti indietro.
PhD Student: Certo. Che significa che non posso tirarmi indietro?
Advisor: una volta che il gioco comincia non puoi più ritirarti.
PhD Student: sono pronto!
Advisor: porta a termine ogni compito con diligenza e non dirlo a nessuno. Quando finisci un compito, mandamelo via mail. Sei pronto?
PhD Student: e se voglio smettere?
Advisor: so tutto di te, verrò a cercarti e ti rovino la carriera.

Anche le prove si adattano facilmente. Solo che anziché in qualche mese sono necessari almeno tre anni. Un esempio delle prove da superare?

  1. Iscriviti alla scuola di dottorato, consegna in segreteria tutti i 4783748 moduli. Manda una copia al tuo Advisor;
  2. Svegliati alle 4:20 e leggi i paper di bibliografia che il tuo Advisor ti ha mandato;
  3. Comincia a fare le prime analisi dati, fallisci miseramente perché sei nuovo, manda una mail al tuo Advisor;
  4. Fai un report troppo corto/lungo/off topic, mandalo per mail al tuo Advisor (che tanto non te lo caca paro);
  5. Se sei veramente pronto a diventare un PhD student, iscriviti al gruppo Facebook della tua facoltà. Se no soccombi in preda ai sensi di colpa;
  6. Fai un algoritmo che chiaramente non funziona;
  7. Manda i risultati (sbagliati) al tuo Advisor;
  8. Scrivi “PhD Student” sul tuo profilo Facebook alla voce “lavoro”. Derpimiti perché il tuo compagno di classe delle elementari, quello che non sapeva fare 2×3, è vice-dirigente dell’agenda del papi e si è appena comprato il BMW;
  9. Cerca di tenere a bada lo stress, l’ansia, la sindrome dell’impostore;
  10. Svegliati alle 4:20, scrivi il tuo primo paper per tutto un week-end;
  11. Manda il paper che ti è costato il week-end al tuo Advisor (tanto non lo legge uguale);
  12. Passa la giornata a procrastinare presentazioni urgenti;
  13. Partecipa a un seminario con altri PhD Student sicuramente più brillanti di te;
  14. Fai la tua presentazione. Sarà orribile e priva di senso;
  15. Cerca di migliorare i tuoi risultati sperimentali;
  16. Stai male, cadi in preda all’ansia sapendo che non avrai un post doc e tanto meno un lavoro;
  17. Accollati le lezioni più noiose del tuo Advisor;
  18. Accollati gli esami del tuo Advisor da correggere;
  19. Accollati gli orali al posto del tuo Advisor;
  20. L’Advisor ti chiede un incontro per discutere del tuo lavoro e se sei degno di continuare;
  21. Parla via Skype con un altro PhD Student disperato;
  22. Accollati tutto l’insegnamento del tuo Advisor per un semestre;
  23. Un altro algoritmo che andrà male;
  24. Compito segretissimo e urgentissimo che l’Advisor ti darà all’ultimo momento;
  25. Momento di autocoscienza con un altro PhD Student sul “cosa cazzo stiamo facendo delle nostre vite?”;
  26. L’Advisor ti comunica la data entro cui consegnare la tesi e discutere e tu non puoi fare altro che accettarla;
  27. Svegliati alle 4:20 in preda all’ansia, sapendo che non riuscirai mai a scrivere la tesi in tempo;
  28. Non parlare a nessuno per tutto il giorno. Tanto il tuo dottorato è l’unico argomento di conversazione, nessuno vuole starti ad ascoltare;
  29. Cercati un post doc, senza trovarlo;
  30. fino alla 49. Svegliati alle 4:20, scrivi la tesi, rispondi alle mail incazzatissime del tuo Advisor;
  31. Scaraventa la tua tesi e la tua persona davanti a una giuria di Advisor strafottenti che la ucciderà. È finita.

Se sei abbastanza stupido da voler giocare questo gioco, sarà dura: i posti di dottorato sono sempre meno. Si dice che di solito siano gli Advisor a scegliere le loro vittime. Nessuna mente vulnerabile dovrebbe essere esposta a tanto.
Sono tutte coincidenze? Noi di Voyager pensiamo di no.

Disclaimer#1: (visto che ormai l’internet è pieno di tristoni che prendono tutto sul serio) qui non si sta sfottendo chi si è suicidato perché abusato da uno sconosciuto su internet. Amesso che sia vero e confermato, poi.
Disclaimer#2: qui non si stanno nemmeno sfottendo i dottorandi, né si vuole scoraggiare la gente a intraprendere quella strada. Koris ha fatto un dottorato e lo rifarebbe (vabbè, magari non proprio uguale uguale, ma lo rifarebbe). Al limite, se proprio si vuole cercare uno scopo nel post, si può vedere una “denuncia” delle condizioni di stress a cui sono sottoposti PhD students e post-doc nella ricerca odierna, un argomento di cui si parla sempre troppo poco.

Sei arrogante?

“Dunque voi siete dottore?”
“Son dottore, sissignore!”

“Come ti è sembrato il tipo neo-assunto con cui facciamo il progetto del bottiglione radioattivo?”
“Mi pare preparato, sa il fatto suo e ha preparato molto bene l’analisi preliminare”
“Non ti sembra arrogante?”
“Perché, scusa?”
“Sai, il responsabile commerciale che era con voi quando avete fatto l’incontro preliminare col cliente dice che lo ha trovato arrogante. Lui e il suo aver fatto un dottorato. Ma mi ha detto anche che lo hai rimesso subito al suo posto”
“Io avrei fatto cosa?”
“Sì, lui faceva l’arrogante col suo dottorato e tu gli hai detto ‘ah, ho fatto un dottorato anche io!'”
“… ah”

Il giorno che il genere umano capirà che dire “io ho fatto un dottorato” non è arroganza ma semplicemente la valorizzazione di un titolo di studio, sarà sempre troppo tardi. Certo, dire “ho studiato all’università della vita” suona molto meglio, da persona vissuta nella dura legge della strada. Vuoi mettere con l’arroganza del dottorato? Ma nascondilo con vergogna, che certe cose mica devi andare a tirarle fuori con la gente, soprattutto coi colleghi di lavoro. Fa tanto snob intellettuale.
Odi profanum vulgum et arceo. Anche Orazio era un maledetto arrogante.

P.S. Koris, che è arrogante da sempre, continua a ripetersi il titolo con la voce di Crozza che imita Bastianich. Se Replicante vede questo arriva a piedi da Luminy e piscia su Koris-gamba.

La nausea del dottorato (e non solo)

Questo post è stato generato da un messagio facebookiano di Celia, ma in verità Koris lo meditava da tempo. Le ultime riflessioni dell’amica A. non hanno fatto altro che confermare il sentimento comune che da qualche tempo serpeggia fra un numero sempre crescente di dottorandi e neo-dottori.
Chiariamoci: nessuno inizia il dottorato con la nausea, altrimenti chiude subito baracca e va a fare altro. Di solito si è giovani di belle speranze (o di belle pietanze) all’inizio. Si inizia con l’entusiasmo e la motivazione di una grande avventura scintillante, zaino in spalla e si parte a conquistare l’Everest.
E poi cosa succede?
La stessa cosa che si verifica durante l’ascensione dell’Everest: ti manca l’aria e ti viene da vomitare. Ma non è l’altitudine, è la somma di tante gocce che fanno traboccare il vaso della pazienza.
Si inizia come sempre dalle piccole cose: una mail che vegeta senza risposta per settimane, un “non ho tempo ora, magari dopo” da parte del relatore, una procedura amministrativa che si perde nelle nebbie perché, in fondo in fondo, i dottorandi sono una grande incognita burocratica, visto che sono pochi. Sono le piccole crepe dello scazzo che minano l’edificio della pazienza e che offuscano quella che dovrebbe essere la stella splendente della ricerca.
Poi c’è lui, il Coccodrillo di Capitano Unico che ti perseguita al ritmo di una sveglia, il Tempo. Perché un dottorato si fa in tre anni, ti pagano per quello. È un conto alla rovescia che si fa sempre più incombente. Tic tac, sono al primo anno, non funziona niente e il mio prof è latitante, ma sto ancora imparando, c’è tempo. Tic tac, sono al secondo anno, funziona poco o niente e vedo il prof una volta ogni morte di papa, ma ok, don’t panic, succederà un miracolo. Tic tac, sono al terzo anno, devo scrivere la tesi, ho dei risultati che fanno schifo, il professore non mi caga di striscio, non ho più una vita e se non finisco in tempo devo anche trovarmi un finanziamento per l’anno prossimo, uccidetemi ora.
In tre anni l’entusiasmo dell’inizio si è trasformato in una serie di notti insonni, in una sequenza di momenti di disperazione perché “se lascio tutto, ho buttato tre anni della mia vita in nulla” (manco una riga sul cv, per dire), in sabati e domeniche passati davanti a un computer, in famiglia e amici che non capiscono perché ci si sta dannando tanto l’anima per qualcosa che nella migliore delle ipotesi leggerano in cinque. Perché purtroppo è così, con tutta la buona volontà da parte degli esterni, nessuno può capire quanto possa soffrire un dottorando se non chi ci è passato. Insomma, intender non lo può chi non lo prova.
Il rapporto col professore meriterebbe un romanzo a sé. Non è il tuo datore di lavoro, almeno sulla carta, cosa che ti priva di tutta una serie di protezioni di cui invece godono gli impiegati. Può comunque rovinarti la carriera per un suo capriccio, in mille modi diversi. Spesso e volentieri sparisce lasciando il dottorando a sé stesso per un periodo indeterminato e lungo, solo per tornare a dire “sbrigati, sei in ritardo”. È una sorta di dio in terra quando permette di avanzare di un millimetro. È l’Odi et amo di Catullo portato agli estremi.
Si è talmente presi da questo vortice di stress che ormai la brillante stella della ricerca è un’esplosione di supernova di ansia. Finché a un certo punto arriva la consapevolezza. Si presenta in un momento più o meno opportuno, per esempio quando, per fare una pausa dalle analisi dati, ti metti a pulire le piastrelle della doccia all’una di notte di Ferragosto (ogni riferimento a fatti veramente accaduti è puramente casuale). E ha più o meno questa forma:
“Cosa cazzo sto facendo?”
E no, non stai parlando delle piastrelle del doccia. Hai 25/26/27 o più anni e la tua vita negli ultimi mesi è andata a rotoli per una tesi. Va bene, se ti fermi al titolo pare una roba fighissima che tutti vorrebbero fare. È un lavoro di ricerca, baby, ricerca vera, mica quelle cosette da una botta e via che si fanno per la tesi di laurea. Però tu sai di che lacrime grondi e di che sangue. Il tuo sangue, nella fattispecie. E di lì si arriva alla domanda numero due:
“Ma perché sto facendo tutto questo?”
Perché vorrei fare ricerca, ecco perché. Ah sì? E sei consapevole che in questo folle mondo i posti sono sempre meno? Lo sai che non stai facendo la ricerca figa e/o alla moda nel tuo settore, ci sarà qualcun altro che ti passerà davati? Hai abbastanza articoli pubblicati su riviste importanti, che sono un po’ la versione accademica del gioco a chi lo ha più lungo? Sei disposto a mettere da parte la tua vita sociale, sentimentale, personale per dare sempre di più? Vuoi davvero affidarti a quel tiro di dadi che significa “la posizione per me in un posto che non sia il Kirghizistan e non fra vent’anni”?
E lì, in ginocchio sul piatto doccia, metti tutto sulla bilancia, le rinunce e le prospettive. La bilancia non dà sempre lo stesso risultato, sia chiaro. C’è chi ha una tesi talmente grossa che dice “sì, io sono il Prescelto, io ce la farò”. Ma c’è anche chi non vuole risvegliarsi fra vent’anni a fare ricerca in Kirghizistan. E soprattutto non vuoi farlo solo perché “non saprei cos’altro fare”.
E l’entusiasmo della ricerca, in tutto ciò? Tramontato. Si è scontrato contro tre anni di ostacoli a non finire, di difficoltà insormontabili, di menefreghismo accademico, di soprusi più o meno marcati, di rinunce a fronte di troppo poche gratificazioni. Del resto la ricerca è la tua passione, dovrebbe riempirti appieno, dovresti considerarti un privilegiato per poter fare della tua passione un lavoro.
Solo che ogni tanto la passione non basta: non ti sfama nei mesi in cui rischi di dover lavorare gratis in attesa di un contratto, non ti fa pat pat sulla spalla dopo una lunga giornata di merda lavorativa, non ti rende meno lieve lo stress da fare-di-più-meglio-e-più-velocemente. Forse non era un vero Amore, per quello lo hai mollato. Ma non c’è Amore che tenga di fronte alle relazioni tossiche.

Disclaimer: questo post non vuole assolutamente essere una critica per quelli che stringono i denti e che continuano, e tanto meno una excusatio non petita per quelli che rinunciano. Sono solo considerazioni personali. E un po’ di speranza che questo sistema malato cambi.

PS#1: poi magari il Kirghizistan è un posto meraviglioso.
PS#2: nessuna piasterlla della doccia è stata maltrattata per la scrittura di questo post.

I danni del Replicante

Per chi si fosse connesso su questi schermi solo recentemente, il Replicante aka Roy Batty è stato per tre lunghi anni il relatore di tesi di dottorato di Koris, prima amato, poi temuto e infine considerato come individuo totalmente fuori della norma.
Per inquadrare il personaggio, ricorderemo che il Replicante arrivava in laboratorio alle sei del mattino e se ne andava in media alle dieci di sera. Della vita privata del Replicante non si sa nulla non perché costui fosse particolarmente riservato, ma piuttosto per un “Errore 404: VitaPrivata not found”.
Codesto individuo dall’austera genetica alsaziana aveva un serio problema a concepire l’esistenza di una vita privata altrui, in particolare di quella di Koris. In particolare al terzo anno di dottorato, il Replicante voleva una tesi impeccabile, geniale, ben strutturata, contenente analisi prive di difetti, nel minor tempo possibile e col suo minore intervento possibile. Una sorta di more with less, dal suo punto di vista.
Anche dal punto di vista di Koris era un more with less, dove il more stava per “ore in laboratorio” e il less per qualunque altra cosa, in particolare le funzioni vitali, visto che le ore in una giornata sono solo 24.
A parte un sano spirito di sopravvivenza in situazioni critiche da prima stagione di Battlestar Galactica, Koris ha tirato alcune lezioni di vita dalla vicenda dottorale. Possiamo anche chiamarli danni morali e materiali, se vogliamo. Alcuni esempi:

  1. se hai il dubbio che il tuo capo voglia qualcosa che non ti ha chiesto, falla comunque. La vorrà, è solo questione di tempo;
  2. il proverbio “presto e bene raro avviene” ha un fondo di verità, ma il tuo capo è convinto che tu sia l’eccezione alla regola. Deal with it;
  3. non dire “faccio le cose alla cazzo, ci sarà tempo per rimetterle a posto dopo”. Il dopo non esiste, baby. Il dopo è già troppo tardi. Fai le cose bene da subito, il tempo della brutta copia nei temi è finito;
  4. “Chi si ferma è perduto” (cit.) e se proprio non hai niente da fare significa che stai dimenticando qualcosa;
  5. qualora tu non abbia una spada di Damocle sulla testa, approfittane per portarti avanti. Domani ti rigraizierai (vedi anche il punto 1);
  6. questo punto era in verità già appreso ai tempi di OPERA e si riassume con i versi di una canzone delle Teste Sciroppate, “Organizziamoci
  7. “che ci fai tu qui? Non dovresti essere al lavoro?”

Koris ha adottato la tecnica “impara l’arte e mettila da parte”, ma ormai i danni sono insiti nel suo già devastato cervello. Tant’è che Koris non concepisce come Binomio possa vivere in questo stato di totale stordimento, prendendosi il lusso di rifare le cose seimila volte, di cadere dal pero ogni volta, di ripetere in loop “meno male che ci hai pensato tu, io non avrei saputo come fare”, a prendere il caffè con le squinzie prima di una riunione che ancora da preparare. I casi sono due: o Koris lancia una campagna “un Replicante per tutti”, oppure fa uno studio approfondito su come Binomio possa passarla sempre liscia sbolognando sottobanco il tutto.

P.S. In verità anche l’Amperodattilo dovrebbe prendersi delle colpe in materia di organizzazione, anticipazione delle difficoltà e di “prima il dovere, poi il piacere”.